sabato 10 giugno 2017

La pioggia e il sole



Si può ascoltare il suono della pioggia e descrivere tutti i suoi aspetti sonori. Si può riprodurre la pioggia con alcuni strumenti realizzati apposta. 

Dopodiché passato il temporale ci si scalda al Sole ascoltando Un sole caldo caldo caldo di Adriano Celentano.

giovedì 1 giugno 2017

Le vibrazioni tattili



La musica è vibrazione, la vibrazione arriva al nostro corpo, la possiamo toccare.
Giona (5 anni), per possedere la musica, ha bisogno di toccarla, andando alla sua fonte, toccandola con la mano per poterne percepire la natura energetica.


Disegnamo la musica

Si può disegnare a musica con bambini di 3, 4 e 5 anni?
Prima la disegnamo nell'aria, con i pastelli, come se stessimo facendo un quadro sospeso. Disegnamo i parametri della musica: lento, veloce, piano, forte, alto, basso, lungo, corto, e così via.
Poi passiamo al foglio di carta. Non un foglio piccolo, ma un foglio graaaaande, grandissimo, sul quale possiamo anche sdraiarci.


Iniziano i grandi (5-6 anni), in modo piuttosto ordinato disegnano le note musicali, gli strumenti e tanti cuori di tutti i colori.


Poi i mezzani (4-5 anni) introducono le forme astratte aggiungendo dei particolari ai disegni fatti in precedenza.


Poi i piccoli (3-4 anni) si scatenano in una festa di colori, strisce e forme arrotondate della più varia identità. 

Ad un certo punto disegnare diventa bello quanto giocare con i pastelli a cera, facendoli saltare di qua e di là. Prima di metterli a posto, ovviamente a ritmo di musica. 


L'opera finita è un quadro collettivo splendido, molto colorato, da osservare con cura.

Le musiche su cui i bambini si sono espressi sono: Tumba di Angelique KidjoI sing for you di Tracy ChapmanDindhina di Ceumar.

giovedì 25 maggio 2017

Me Gustas Tu





Per concludere un articolato percorso svolto con tutte le classi di una scuola primaria della provincia di Lecco abbiamo liberamente preso spunto da Manu Chao. Abbiamo ricordato insieme tutte le attività, i giochi, le esperienze condivise nei nostri numerosi incontri, poi ognuno ha potuto dire quale gli è piaciuta maggiormente. Dopo aver ascoltato Me gustas tu abbiamo tradotto la canzone in italiano e l'abbiamo personalizzata inserendo tutte le suggestioni nominate dai bambini. E' stato emozionante e divertente. W la musica e la fantasia e il riutilizzo creativo sonoro !!!


La lentezza


Chiedere ai bambini di fare le cose lentamente è quasi impossibile. A meno che non sia un gioco, una sfida.
Abbiamo ascoltato una brano di Enya, durata 4 minuti circa. La consegna è ascoltare con attenzione il brano, nelle sue caratteristiche musicali (durata, lunghezza, velocità, ritmo, intensità, e così via). Dopodiché i bambini devono attraversare la stanza, nel lato più corto, partendo esattamente quando la musica comincia e arrivando esattamente quando la musica finisce. Le regole sono: non ci si può mai fermare e non si può tornare indietro.
E' sempre molto interessante vedere le dinamiche del gruppo, l'ansia di prestazione di qualcuno e la fretta di qualcun'altro.
I gioco si può rifare diverse volte, in modo da dare più possibilità ai partecipanti di modulare il loro movimento.


mercoledì 3 maggio 2017

Il movimento di gruppo


Il movimento con la musica è una strategia di apprendimento informale rispetto diversi piani: la coordinazione spazio temporale, l'ascolto attento e finalizzato, la dimensione relazionale con se stessi e quello con gli altri, la creatività, l'immediatezza del momento. Chiedere ai bambini di muoversi a tempo di musica con alcune regole e altrettanto spazio lasciato alla libera interpretazione permette loro di armonizzare molti aspetti della propria presenza in modo giocoso e slegato da aspettative prestazionali. Quando i bambini accolgono la possibilità di vivere questa esperienza occorre aiutarli a dare la giusta forma alla loro emozioni. Spesso usano il movimento per alimentare altri canali di espressione: urlano, ridono eccessivamente, si muovono anche quando non si dovrebbe, e così via. Il ruolo del conduttore in questi casi consiste nell'offrire loro delle vie creative sensate per dar la giusta forma all'entusiasmo. Il mio invito è sempre quello di fare bene le cose, e dare senso a quello che facciamo. Chiedere ai bambini di fare bene è una formula semplice per dar loro la responsabilità delle loro azioni. E spesso funziona. Anzi così facendo i bambini mi chiedono di poter riprovare. E cambia tutto.

venerdì 28 aprile 2017

I disegni della musica

Primo incontro con i bimbi della scuola dell'infanzia S.Giuseppe di Casatenovo.

Ecco i loro disegni che raccontano la musica fatta insieme.








giovedì 6 aprile 2017

Le bottiglie e la pioggia


Terza primaria,
Terzo di otto incontri.
Ascoltiamo il suono della natura: Il temporale e ci raccontiamo cosa abbiamo sentito, quali suoni ci hanno colpito maggiormente. Proviamo a riprodurli con la voce e con i suoni del nostro corpo. Ognuno fa il suo suono e tutti lo ripetono in coro.
Distribuisco le bottiglie di plastica tagliate in modo che possano produrre un suono al loro movimento con l'indicazione di non suonare finché non le ho distribuite a tutti.
Proviamo a suonare insieme la pioggia usando le bottiglie aggiungendoci uno alla volta, in cerchio. Poi smettiamo di suonare gradualmente in modo da simulare il suono del temporale che finisce.
Ascoltiamo A day without rain di Enya e sentiamo che manca proprio il suono della pioggia. Riascoltiamo il brano aggiungendo i nostri suoni della pioggia, quelli delle bottiglie e quelli prodotti con la nostra voce o il suono dei nostri corpi. Registriamo e ci riascoltiamo.
Questa attività è piaciuta molto, i bambini hanno partecipato con attenzione e creatività.

L'orchestra e la polka di Strauss

Seconda primaria.
Quarto di otto incontri, il secondo con l'uso degli strumenti.
Siamo seduti in cerchio per terra.
Ascoltiamo Annen Polka di Johann Strauss e ne osserviamo le caratteristiche (metrica musicale, velocità, agogica, strumenti, durata, variazioni sul tema, ...).
Distribuisco gli strumenti sempre appoggiandoli sul pavimento davanti a ogni partecipante con l'indicazione di non toccarli fino al momento di dover suonare, come fanno i musicisti di un'orchestra.
Si creano così diverse sezioni sonore: il gruppo dei tamburelli, il gruppo dei tamburi a cornice, il gruppo degli shaker, il gruppo dei piatti.
Io sono il direttore d'orchestra e dirigo le entrate e le uscite con i gesti delle mani, facendo suonare alcune sezioni separatamente o tutto il gruppo insieme.
I bambini sono molto attenti, seguono le indicazioni e aspettano il loro turno.
Dopo averlo provato una volta, ci registriamo e poi ci riascoltiamo. Questo aggiunge importanza al lavoro e permette loro di sentire la loro performance, di notare gli errori e gli eventuali comportamenti da correggere.


L'orchestra e il suonare a turno

Seconda primaria.
Primo incontro con l'uso degli strumenti.
Siamo seduti in cerchio, distribuisco gli strumenti appoggiandoli sul pavimento davanti a ogni bambino con l'indicazione che non si possono toccare fino al mio via (l'attesa, il saper stare alle regole, non avere fretta, saper stare).
Io sono seduta in cerchio con lo jambee. La consegna è: quando inizierò a suonare a turno cominceremo a suonare nell'ordine del cerchio dal primo all'ultimo. Suoneremo tutti insieme, stando attenti a dare un senso a quello che facciamo, ascoltando gli altri e senza voler suonare più forte di tutti. In un orchestra ogni strumento ha la stessa importanza e non si deve sentire di più di un altro (se non si sono altre indicazioni). Poi io smetterò di suonare e, a turno, nel senso del cerchio, smetteremo di suonare, finché resterà solo una persona che finirà per ultima.
Iniziamo. La naturale tendenza dei bambini è essere frettolosi e iniziare a suonare tutti insieme e smettere tutti insieme senza dare importanza all'attesa e all'ascolto. Su questo si può lavorare molto con loro e aiutarli a notare i loro comportamenti. La seconda prova è subito meglio, ma ci vuole un po' prima che ciascuno si conceda la possibilità di avere il proprio spazio di attesa e di indipendenza dal gruppo.
Ci si sposta tutti di un posto alla nostra sinistra, in modo da cambiare strumento e sperimentare un suono e una sensazioni tattili percettive differenti.

Il ritmo in movimento


da un incontro di Musicoterapia presso la scuola primaria di Acquate, Lecco.
Febbraio 2017

mercoledì 22 marzo 2017

La prestazione a scuola

Sto conducendo una serie otto di incontri per sette classi (totale 56 ore) a scadenza bisettimanale in una scuola primaria della provincia di Lecco. Il mio progetto, consegnato alla dirigenza scolastica, prevede l'uso della musica e del canale sonoro (ritmo-melodia-armonia) per supportare lo sviluppo motorio, cognitivo e relazionale dei bambini. Il metodo di lavoro prevede il gioco come dimensione per sviluppare l'attenzione all'ascolto, la coordinazione motoria, lo scambio di ruoli. Il movimento, sempre associato al suono, permette ai bambini di modulare i propri interventi, la propria energia e aggressività.

Gli obiettivi dichiarati in sede progettuale sono:
  • sviluppare le prime conoscenze musicali attraverso la danza e il fare musica;
  • Supportare le competenze motorie, cognitive e relazionali fondamentali alla crescita dei bambini, con attenzione alla componente emotiva di ciascuno.
Il lavoro di gruppo permette di dare attenzione ai bambini che manifestano particolari difficoltà, disagi o limiti. E' compito della musicoterapista favorire l'integrazione di tali bambini modulando modi e tempi previsti dall'attività perché non siano un ostacolo al raggiungimento di obiettivi "produttivi" definiti, ma risorse e occasione di scoperta e apprendimento per tutto il gruppo. 
Gli obiettivi specifici di apprendimento comprendono: l'uso della danza per fare esperienza delle basi della musica: ritmo-melodia-armonia; lo sviluppo della memoria corporea e l'organizzazione spazio-temporale; l'uso del silenzio, delle pause e delle attese per dar spazio alla musica; la condivisione con il gruppo classe di emozioni significative; la valorizzazione di ogni componente del gruppo.

Le attività finora svolte hanno previsto differenti proposte, variate per le diverse età dei bambini. In generale ogni incontro si svolge secondo il seguente schema. I bambini si tolgono le scarpe e entrano nella palestrina. Si comincia con una/due danze di gruppo per il saluto iniziale, per sciogliere eventuali tensioni pregresse e entrare nel setting musicoterapico.  Ci si siede per terra in cerchio e si introduce l'argomento del giorno. Finora abbiamo lavorato sul senso ritmico e musicale dei nostri nomi, sui suoni della natura (in particolare la pioggia), sull'uso della voce e di un linguaggio fantasioso, abbiamo introdotto gli strumenti musicali per giocare con i ritmi base (2/4, 3/4, 4/4, 5/4), abbiamo ascoltato e suonato una musica d'insieme come un'orchestra.
A mio parere il progetto procede, i bambini sono partecipi e mi fanno grandi sorrisi quando mi incontrano nei corridoi della scuola.

Detto ciò, a metà progetto, vengo convocata dal gruppo insegnanti per fare il punto della situazione.
Mi viene criticato il metodo non direttivo, una morbidezza eccessiva nei confronti dei bambini difficili. Mi viene proposto di usare il metodo del maestro di ginnastica: cartellino giallo al primo richiamo, cartellino rosso (e espulsione) al secondo richiamo. Mi viene chiesto cosa stanno imparando i bambini, se e quando impareranno le note della scala musicale. Insomma, percepisco da parte delle insegnanti, una forte preoccupazione rispetto alla richiesta prestazionale verso i bambini. Mi "difendo" dicendo che quello che sto facendo con i bambini è scritto nel progetto consegnato prima di iniziare gli incontri. Inoltre la musicoterapia ha obiettivi ben diversi da un normale corso di musica, di sport o di una lezione scolastica. Non è previsto che i bambini imparino nulla di preciso, non ci sono aspettative prestazionali su di loro e non si deve arrivare da nessuna parte decisa in partenza. Questo è uno dei motivi per cui non ha senso concludere il percorso con uno spettacolo di fine anno (tanto desiderato delle maestre). Mi chiedono di poter leggere il programma degli incontri. Rispondo che non ho un programma preconfezionato. Il percorso prende forma da volta a volta, che ogni classe viaggia a velocità differenti e che quindi ogni incontro è speciale per quello che è. Preparo ogni incontro in funzione dell'andamento dell'incontro precedente. Chiedo alle maestre di provare ad osservare i loro bambini con altre lenti rispetto a quelle usate in classe. Ricordo che sono spesso loro stesse a farmi notare che durante gli incontri in palestrina alcuni bimbi si mostrano in modi mai visti, che a volte non li riconoscono. Suggerisco di notare come stanno i bambini, com'è il loro portato emozionale e cosa riportano in classe.
L'incontro si conclude con qualche nodo sciolto ma altrettanti perplessità, sia da parte loro che da parte mia.

Sicuramente ho imparato che la prossima volta sarà mio dovere far capire bene alle maestre la portata del progetto che porto, sciogliere i nodi più grossi per far sì che non si arrivi a metà progetto con queste fatiche (delle maestre). Inoltre resta una riflessione più ampia rispetto ai metodi scolastici e la loro chiusura verso metodi educativi diversi, che permettano agli educandi maggior respiro e più spazio alle diversità espressive di ciascuno.

venerdì 3 marzo 2017

Voce sono. Per una consapevolezza vocale_12

Sitografia

  • nocinofolk.com


Voce sono. Per una consapevolezza vocale_11

Bibliografia

  • Bellia V., (2001), Dove danzavano gli sciamani, Il setting nei gruppi di danzamovimentoterapia, Franco Angeli, Milano.
  • Benenzon R., (2011), Manuale di Musicoterapia, Edizioni Borla, Roma.
  • Bini A., Lottici M.C., (1998), Nascere nella musica, Xenia edizioni, Milano.
  • Cremaschi Trovesi G., Porta M., (1991), L'uomo e il suono, Prospettive e limiti della musicoterapia, Ghedini Editore, Milano.
  • Dalcroze E. J., (2008), Il ritmo, la musica e l'educazione, a cura di Louisa Di Segni-Jaffé, EDT Torino.
  • Fraisse P. (1979), Psicologia del ritmo, Armando, Roma.
  • Freschi A.M., (2016), Movimento e misura, Esperienza e didattica del ritmo, EDT Torino.
  • Gamba L., (2012) Musicoterapia per crescere. Percorsi riabilitativi dall'infanzia all'adolescenza, Carrocci Faber, Roma.
  • Goldman J., (1998), Il potere di guarigione dei suoni, Il punto d'incontro, Vicenza.
  • Krishnamurti J., (1978), Verità e realtà, Casa Editrice Astrolabio-Ubaldini Editore, Roma.
  • Léothaud G., (2005), Classificazione universale delle tecniche vocali, Enciclopedia della Musica, vol. V, Einaudi, Torino, pp. 789-813.
  • Nietzsche, F., (2014), Così parlò Zarathustra, Newton Compton Editori, Roma.
  • Orff G., (1982), Musicoterapia Orff, Cittadella Editrice, Assisi.
  • Postacchini P.L., Ricciotti A., Borghesi M. (2014), Musicoterapia, Carocci, Roma.
  • Rizonico F., Oddi M., (2015), Musichiamo. Percorso di educazione musicale per bambini dai 2 ai 4 anni, Edizioni Lapis, Roma.
  • Scardovelli M., (1999), Musica e trasformazione, Borla, Roma.
  • id., (1992), Il dialogo sonoro, Gem/Nuova casa editrice Cappelli, Roma.
  • Schelde K., (2010), Soul voice, libera la voce dell'anima, Macro Edizioni, Perugia.
  • Schopenhauer A., (2014), Il mondo come volontà e rappresentazione, Editori Laterza, Roma.
  • Staiano E., Perugia L., Gallo D., Brunello S., Insegnare musica ai bambini, (2013), Edizioni Didattica Attiva, Torino.
  • Stern D. N. (2005), Il momento presente. In psicoterapia e nella vita quotidiana, Raffaello Cortina, Milano
  • Thìch Nhất Hạnh, (2003), La pace è ogni passo, La via della presenza mentale, Ubaldini, Roma.
  • Tomatis A., (2001), Come nasce e si sviluppa l'ascolto umano, Psicologia e neurofisiologia dei una funzione vitale, Red Edizioni, Como.
  • id., (1993), L'orecchio e la voce, Baldini & Castoldi, Milano.
  • Tosto I. M., (2009), La voce musicale, Orientamenti per l'educazione musicale, EDT Torino.
  • Umiliata D., (2013), Iniziazione e individualizzazione, Ananke, Torino
  • Videsott M., Sartori E., (2008), La voce in terapia, Edizioni Cosmopolis, Torino.
  • Vineis D., (2012), Spartito perso, giochi di animazione con le musiche del novecento, Franco Angeli, Milano.
  • Watzlawick P., (2007), Guardarsi dentro rende ciechi, Edizioni Ponte alle Grazie, Firenze.

Voce sono. Per una consapevolezza vocale_10

Conclusioni Sono grata alla scuola e ai miei compagni per le esperienze e la condivisione di alcune visioni, per gli incontri con le diversità e le opinioni lontane, stimolo continuo di crescita. Sono convinta dell'importanza dell'uso del canale vocale nella dimensione relazionale e che in un percorso di formazione per musicoterapisti serva un aiuto solido e strutturato per acquisire familiarità e consapevolezza con la propria voce. E' il nostro primo strumento, che abbiamo dalla nascita, con il quale viviamo tutti i giorni. In ambito professionale la voce può e deve essere usata consapevolmente e senza tabù, non in sostituzione degli altri strumenti. E' una delle possibilità, al pari di una percussione o uno strumento melodico. I professionisti dovrebbero a mio avviso fare un percorso di crescita personale in questa direzione, con una guida matura e esperta per consolidare una base teorico-metodologica rispetto a ciò. Il terapista deve avere la possibilità di sperimentarsi in questo ambito, sviluppare un'autoanalisi e integrare eventuali blocchi emotivi, esplorare eventuali ricadute psicofisiche su di sé, prima dell'incontro con il paziente. Una volta completata la formazione potrà scegliere consapevolmente quanta importanza dare a questo strumento, se approfondirne gli aspetti o se preferire altre metodologie operative. 


Voce sono. Per una consapevolezza vocale_9

Esperienza sul campo_due: La liberazione della voce

I gruppi curano i gruppi.
Vincenzo Bellia, Dove danzano gli sciamani

La mia seconda Esperienza sul campo è stata rivolta a cinque ospiti della Cooperativa Sociale Penna Nera di Mariano Comense. Gli incontri sono stati sempre di gruppo, della durata di un'ora, con cadenza settimanale. Abbiamo iniziato a febbraio '16 e concluso a ottobre '16. La partecipazione è sempre stata numerosa, le poche assenze sono state motivate con impegni personali al di fuori della vita della cooperativa o qualche lieve malattia. Gli obiettivi sono stati rivolti al gruppo e, in diversa misura, ai singoli. Alcune competenze che si è inteso promuovere nell'individuo afferivano alla dimensione relazionale, alla maturazione delle capacità di stare in gruppo. Il motore della terapia è stata la relazione, da cui parallelamente si è raggiunto il singolo. Si è creato un gioco di risonanze e rispecchiamenti complesso, su ciascun membro sono confluite attribuzioni simboliche e personali che poi il gruppo ha riassorbito. Si è creato un campo tranferale sempre in movimento e trasformazione. Ogni azione del singolo è ricaduta nel gruppo, ogni suono, ogni movimento è stato percepito, integrato e sincronizzato.Il setting e lo strumentarioGli incontri avvenivano nella piccola palestra, con ai lati cyclette e attrezzi ginnici che non hanno mai suscitato l'interesse dei presenti, forse anche perché li usavano già in altri momenti della settimana. Allestivo il setting sostanzialmente allo stesso modo, apportando qualche modifica via via per arrivare a una disposizione funzionale: sedie a cerchio, un tavolo con tovaglia facente parte del cerchio, un tavolino con PC e casse a mia disposizione. Lo strumentario veniva posizionato sul tavolo verso la metà dell'incontro, al momento dell'improvvisazione. Abbiamo suonato shakers, tamburi, piatti, woodblock, maracas, triangoli, jambee, flauti dolci, tamburelli, triangoli, chitarra, metallofono, oceandrum, ukulele, kazoo, flauti a coulisse.Dopo aver osservato la presenza sonora dei partecipanti, le loro strategie messe in campo in termini di adattamento spaziale, temporale e relazionale, i limiti e le capacità espressi e latenti, ho dato agli incontri una struttura semplice e ripetitiva: un momento introduttivo di ascolto di brani proposti dai partecipanti o da me, un'improvvisazione di gruppo della durata di circa 25 minuti, una condivisione verbale e un saluto finale con l'ascolto di un altro brano o con una breve improvvisazione con strumenti a percussione e la voce.Il canto stereotipato e la prestazioneHo sempre proposto ascolti di musiche lontane dal quotidiano dei partecipanti (jazz, classica, lirica, elettro-pop, rock, etc.) che hanno suscitato reazioni diverse. Chiedevo ai partecipanti di proporre degli ascolti per stimolare la loro sensibilità e la saggiare la colonna sonora della loro vita. Spesso le loro proposte raccoglievano dal mondo della musica leggera italiana, dalla stereotipia della radio degli anni '70-'90: Gianni Morandi, I ricchi e poveri, Battisti, Marcella Bella, I Pooh, Celentano, Battisti, Laura Pausini. Nel tempo abbiamo codificato un modo di ascoltare questo genere di brani che potrei definire ascolto partecipato: ascolto e canto. Mettevo a disposizione alcuni oggetti che, per la loro forma, assomigliano a dei microfoni. Ciascuno sceglieva il proprio e lo usava nel canto in modo molto personale. Qualcuno lo impugnava proprio come si vede fare dai cantanti professionisti, altri lo tenevano in mano appoggiato sulle gambe, altri lo dondolavano avanti e indietro per aiutarsi dei movimenti. Se inizialmente poteva esserci timidezza nei partecipanti, l'assenza di giudizio e di confronto reciproco ha progressivamente sciolto i timori. Questo momento è diventato occasione per una gioiosa espressione nel canto, per contattare se stessi, la propria voce e per stare con gli altri in un modo non consueto. Alcuni partecipanti, in momenti di particolare trasporto emotivo, si alzavano e davano fisicità al canto, in piedi davanti alle casse, come se fossero assettati di vibrazioni. Una persona ha espresso a gran forza la propria presenza portando una voce forte, presente, vibrante, come se lì ci fosse un dono nascosto e non espresso in altre occasioni. Permettere che queste manifestazioni trovassero la via ha dato a questa pratica grande rilevanza. Sono stati coltivati l'ascolto autentico, l'assenza di giudizio, la non competizione, il divertimento e la leggerezza. Se da una parte i partecipanti potevano cadere nella trappola dell'ansia di prestazione cercando di cantare bene, chiedendomi se fossero stati bravi e atteggiandosi come i cantanti della TV, dall'altra si dimenticavano queste strutture, lasciavano cadere i condizionamenti semplicemente vocalizzando. I miei interventi avevano l'intenzione di portare il gruppo in questa direzione, in modo morbido e mai forzato. Ho progressivamente tolto importanza all'oggetto-microfono trasformando il mio progressivamente in una sorta di amuleto, appoggiato di fianco a me. Se nei primi incontri la mia voce emergeva nella sonorità di gruppo con l'intenzione di mostrare nuove possibilità, poi ho lasciato spazio alle voci degli altri cercando per me la via della trasparenza. Mi rendo conto che sono stati passaggi importanti, che sono avvenuti gradualmente, in modo da lasciare ai partecipanti la conquista di ruoli nuovi e la conferma delle proprie rivelazioni.La voce liberaNei nostri incontri è stato dato molto spazio all'improvvisazione. Venivano messi a disposizione diversi strumenti musicali, per lo più a percussione: shakers, tamburi, piatti, woodblock, maracas, triangoli, jambee, tamburelli, triangoli, metallofono, oceandrum, due flauti dolci, flauti a coulisse, una chitarra, due kazoo e due ukulele. Il gruppo ha sperimentato vari modi di suonare. All'inizio c'era la curiosità di conoscere gli strumenti, di sperimentarne le qualità sonore, poi abbiamo conquistato il piacere del suonare insieme. E' comparsa la voce, dei semplici vocalizzi ripetuti diverse volte, note armonizzate sulla struttura prima-terza-prima, a ritmo con il suono presente in quel momento, ad un'altezza comoda per tutti. Lo spaesamento iniziale dei volti poteva essere un freno, chi rideva, chi guardava fisso, chi continuava a suonare senza mostrare particolare interesse. Ho proposto più volte vocalizzi simili tra loro e così, nel tempo, la voce non è stata più una novità. E' diventata una possibilità per creare dialoghi sonori, a due o più voci, brevi botta e risposta, piccole melodie inventate o riprese da canzoni conosciute, giochi fatti con i nomi dei partecipanti. Il desiderio comune di cantare ha generato un circolo virtuoso di azioni importanti per i singoli, per il gruppo e per me come conduttrice. Abbiamo conquistato un territorio prezioso, di tutti. Nella fase finale del progetto il canto aveva consolidato un ruolo condiviso da tutti, a sé stante rispetto a quello degli strumenti. Cantare una canzone famosa non era molto diverso da vocalizzare dei pattern sonoro-musicali ripetuti, chiamare per nome i presenti a ritmo di percussione, o intonare una melodia improvvisata. Questa esperienza mostra una possibilità per strutturare un percorso vocale e strumentale che può prendere varie direzioni, può rallentare o accelerare volta dopo volta, e può essere occasione di grande ricerca da parte del conduttore

Voce sono. Per una consapevolezza vocale_8

Esperienza sul campo_uno: 

Il canto che fuLa signora Piera


Ho svolto la mia prima Esperienza sul campo presso l'RSA Agostoni di Lissone (MB), in collaborazione con Aral, l'associazione Ricerca Alzheimer di Lissone1. Ho vissuto un percorso formativo esperienziale con la signora Piera, residente nel Nucleo Alzheimer della struttura. A maggio 2015 abbiamo cominciato il percorso nella stanza dei suoni, allestita all'interno della clinica. L'attività si è conclusa a dicembre 2015.

Il percorso ha previsto le tre fasi. Inizialmente io e la signora ci siamo conosciute nel setting musicoterapico, abbiamo cominciato a suonare insieme in modo improvvisato e senza obiettivi specifici. Questi primi incontri sono serviti per cominciare a farmi un'idea di lei, dei suoi lati più solidi e forti e quelli più delicati e sensibili. Abbiamo creato un ambiente di lavoro accogliente, una base sicura e una cornice spazio temporale adatta alla paziente. La signora ha iniziato a esplorare spazi impolverati, trovando in me una compagna presente e non giudicante. Nella seconda fase abbiamo consolidato la nostra relazione basata sulla mediazione sonoro-musicale, mi sono permessa di osare facendo alcune proposte. Successivamente ho cercato di affermare la mia presenza di facilitatrice introducendo creativamente delle novità che si armonizzassero con le resistenze e le competenze residue della paziente.Quando ci siamo conosciute la sig.ra Piera aveva 77 anni, aveva ancora importanti capacità, sia cognitive che fisiche. Parlava correntemente, con una buona sintassi. Sosteneva con prontezza il ritmo di un dialogo a due. Il contenuto dei suoi discorsi non era sempre logico, faceva connessioni irreali e non coerenti, ma in ogni caso non si sottraeva alla risposta verbale. Rispondeva con prontezza alle argomentazioni proposte, benché nei suoi discorsi si potessero riconoscere i segni chiari e vivi della malattia, che la facevano essere vaga e confusa. Nel dialogo a due a volte non ricordava cosa volesse dire, esprimeva questa difficoltà aiutandosi con varie strategie: sorrisi, inventando argomentazioni per associazioni libere o ammettendo di non ricordare e cambiando argomento. Da un punto di vista fisico era capace una di buona autonomia di movimento: si alzava e si sedeva da sola, camminava anche senza il sostegno del deambulatore, con passo morbido ma deciso, gli arti superiori erano abili e aveva una buona presa in entrambe le mani. Aveva prontezza di riflessi agli eventi esterni (rumori, luci e movimenti, …) ai quali rispondeva guardando nella loro direzione di arrivo e commentandoli verbalmente. Spesso collegava i rumori esterni alla stanza (voci, passi, rumori vari) a dai presunti vicini di casa, che, secondo lei, si lamentavano del rumore o che arrivavano per sgridarci.Il setting degli incontri era sempre lo stesso: un tavolino basso con appoggiati gli strumenti musicali, due sedie di colore uguale. Sul tavolino disponevo sempre coppie di strumenti uguali: due flauti dolci, due maracas, due tamburi africani con ciascuno due bacchette di legno, quattro campanelli, il tutto posizionato a specchio per le due partecipanti, più uno jambee.

Da un punto di vista sonoro-musicale la signora Piera aveva una buona padronanza dei principali parametri: cantava con piacere, era intonata, sapeva cambiare tonalità quando opportuno, aveva buon senso ritmico, sia nel canto che nell’uso degli strumenti. Non amava le intensità forti, anzi tendeva a tenere basso il volume, sia nelle improvvisazioni con gli strumenti sia nell'ascolto di musica registrata. Usava volentieri gli strumenti proposti, anche se non sapeva come, ci provava, osava. Utilizzava senza timore le percussioni, gli strumenti a fiato (flauto dolce). A causa della malattia degenerativa la signora Piera solo a momenti sembrava ricordare la stanza dei suoni, me e gli strumenti. Ogni volta li usava in modi nuovi senza preoccuparsi del mio giudizio: le maracas potevano diventare un rasoio da barba, un microfono per cantare, un battente per suonare una percussione. Accoglievo di volta in volta le sue proposte e entravo nella sua realtà, stavo nel suo gioco. Questo permetteva spesso dialoghi sonori fatti di rumori, onomatopee, vocalizzi che volevano imitare il suono dell'oggetto in questione. Non era importante che stessimo usando una maracas con la sua propria funzione o in altro modo, come battente di una percussione, come un microfono o addirittura come un rasoio. La bellezza dei nostri dialoghi erano le nostre voci unite agli strumenti che formavano il nostro suono. In fondo la realtà è quello che noi crediamo che sia e non ci preoccupiamo che le nostre interpretazioni siano corrette o meno. Questa è una visione che può essere applicata a chiunque, a grandi e piccoli e in particolar modo a persone affette da malattie degenerative come l'Alzheimer. Come dice il filosofo Krishnamurti bisogna saper distinguere tra ciò che è reale, cioè il frutto della nostra razionalità, e la verità del mondo, quella che è di per sé. Krishnamurti dice:“Qualunque cosa il pensiero pensi in modo ragionevole oppure no, è una realtà. Può essere distorta o ragionata con chiarezza, ma è sempre una realtà. Tale realtà, direi, non ha nulla a che vedere con la verità (...) Il falso è reale ma non è vero”2.A Piera piaceva il canto. “Le è sempre piaciuto” diceva la figlia. Nei nostri dialoghi sonori c'è sempre stato, sia con improvvisazioni a parole inesistenti che con melodie inventate e con riproposizione di canti della sua biografia musicale. I sui brani erano: La domenica andando alla messa, cantata da Gigliola Cinquetti3, da cui, una volta introdotto, difficilmente si discostava se non per introdurre Piemontesina bella4, un canto popolare piemontese. Da una prospettiva clinica l'Alzheimer è una malattia degenerativa che intacca la memoria, in particolare quella a breve termine. E' normale che un paziente ricordi immagini e fatti avvenuti molti anni prima, ma scorda velocemente ciò che è appena successo. Nella stanza dei suoni accade la stessa cosa: melodie e canzoni del passato sono vive e cariche di significato emozionale e dotate di un senso proprio che rimane congelato nel tempo. Per la signora Piera cantare significava spesso approdare a uno di questi canti. Ricordava il testo di entrambi. Nel caso non lo ricordasse, lo inventava al momento, strategia spesso utilizzata da chi, come lei, ha una forte personalità. Non poteva permettersi di non ricordare, piuttosto inventava facendo finta di nulla. Non sapeva collegare queste melodie a nessun ricordo, nessun aneddoto di vita passata. Il canto di questi due brani aveva un significato emozionale inconscio, forse legato ai ricordi del passato o forse era solo una base sicura su cui appoggiarsi per non dover andare oltre. Sicuramente si generava in lei una sensazione di benessere, leggibile nel suo sorriso, nel rilassamento corporeo e nel respiro che diventava progressivamente più rilassato e morbido. Questo uso del canto aveva un senso anche perché stimolava le capacità cognitive residue legate alla memoria a lungo termine rispetto alla melodia e al testo delle canzoni. Rimane una domanda a cui non abbiamo avuto modo di rispondere per la conclusione del nostro percorso: in che misura questa pratica potesse essere uno strumento di fuga, un tentativo si scappare in un luogo e in un tempo della mente diversi, nel tentativo di trovare serenità nella rievocazione di un passato di gioventù?Il rispecchiamentoUn'altra modalità di usare il canale vocale nella relazione è stato il dialogo ritmico, una comunicazione in forma di botta e risposta, molto ritmata e dotata di un senso proprio, altro rispetto al dialogo verbale classico. Si alternava la ripetizione di cellule ritmico-melodiche, senza struttura predefinita, composte da sillabe semplici, per esempio BA - BA - BA, BA - BA - BA. Erano brevi momenti, carichi di energia e senso proprio. Questi dialoghi avevano spesso il carattere del rispecchiamento nel momento in cui una delle due proponeva e l'altra rispondeva ripetendo la stessa forma vocale, esattamente uguale nei parametri del suono (intensità, altezza, velocità, ritmo). Una volta instaurata una buona relazione, di volta in volta, abbiamo osato delle sintonizzazioni inesatte, per dirla alla Postacchini5. Le sintonizzazioni inesatte si costruiscono su un pensiero elaborativo, sulla possibilità di affrontare una variazione che consente di sperimentare il campo dell'inedito e di aprire la mente a nuove strategie di funzionamento. Alla cellula ritmica proposta seguiva una risposta con piccole variazioni: BA - BA - BA / BO - BO - BO / BE - BE - BE / BU - BU - BU, e via di seguito. Questi momenti erano divertenti, originali, spesso si concludevano in una risata comune. Si costruivano veri e propri linguaggi, alternando canale verbale, para-verbale e non verbale. Il canale verbale può essere formato da parole dotate di senso inserite in una sintassi congruente. Il canale paraverbale è dato da toni, velocità, timbri, volumi diversi dal solito e opportunamente modulati per dare senso al dialogo. Il canale non verbale è tutto l'insieme dalle posture, dei movimenti, le posizioni di seduta, la direzione degli sguardi. Inoltre in una relazione il guardarsi negli occhi costruisce un ponte verso una maggiore intimità. Guardarsi negli occhi oppure no dice tanto sulla qualità della relazione. Piera a volte mi guardava fissa negli occhi, usava avvicinare le mani alla mia testa fingendo di volermi dare una sberla. Lo faceva ridendo e dicendomi “Stai attenta che te le dò”, che ero come le sue figlie. In questa sorta di role play (gioco di ruolo) era come se lei ritornasse nel registro della mamma che vuole affermare il proprio ruolo mentre io assumevo le sembianze della figlia da educare. I nostri giochi vocali spesso diventavano occasione per improvvisare sezioni di veloci botta e risposta in un linguaggio inventato, con parole dotate di senso in una frase sgrammaticata o in forma di lallazione. Ciascuna emetteva dei suoni della durata di al massimo due-tre secondi e subito l'altra rispondeva dicendo qualcos'altro di ugualmente sensato ma senza significato oggettivo. Il tutto avveniva velocemente, senza pause, come su una giostra. Trovo che queste esperienze fossero occasione di grande ossigenazione emotiva per la signora. La dimensione temporale di questi attimi era quella che Daniel Stern (2005) definisce momento presente, l'unità temporale in cui la mente elabora il messaggio che arriva. Dura in media tre-quattro secondi. In questo attimo la mente unisce gli stimoli costruendo insiemi significativi. Tali processi sono legati al tempo dei fonemi e dei sintagmi che compongono una frase che non dura più di tre secondi. Anche in musica e nel canto, come nel linguaggio parlato, l'intervallo di tre-quattro secondi è il più comune: i turni di vocalizzazione tra noi duravano pochi attimi, come avviene nella comunicazione verbale tra la mamma e il neonato. Intuendo quanta fatica potesse fare la signora Piera nel selezionare le giuste parole nell'archivio della memoria ormai compromessa, è comprensibile come invece fosse istintivo tornare alla lallazione mamma-bimbo. Sfruttava queste strategie non solo per piacere, infatti manifestava un certo fastidio appena il momento era concluso. Piuttosto per comodità, perché istintivamente la mente portava lì. Le malattie degenerative senili possono portare alla parziale compromissione del canale verbale o, nei casi più gravi, alla completa afasia. La signora Piera si stupiva di non essere in grado di usare la parola nel modo abituale, mostrava disagio e spaesamento. Sperimentava con stupore e con velata soddisfazione e incredulità il linguaggio paraverbale. Il rinforzo della mia risposta sembrava essere un sostegno per lei. Questo apriva possibilità di espressione che in altri momenti della giornata forse le erano meno familiari.La risatala risata è un'altra strategia vocale dal carattere trasformativo che ha trovato significativi attimi nella relazione con la signora Piera. Merita necessariamente qualche riflessione. La scienza ci dice che durante una risata le strutture nervose periferiche del cervello producono le endorfine, sostanze chimiche dotate di una potente attività analgesica e eccitante. Le endorfine esercitano sul corpo umano un effetto simile alla morfina o alle sostanze oppiacee regolando l'umore. Vengono rilasciate nel nostro organismo in situazioni di piacere e rilassamento, ma anche in particolari situazioni di stress come forma di difesa in modo da poter sopportare meglio la sofferenza fisica e psicologica. Gli effetti benefici della risata sono quindi confermati da studi scientifici. Ridere coinvolge tutte le parti del corpo: il cuore, la respirazione, il battito cardiaco, la pressione arteriosa, la muscolatura. Più la risata è spontanea tanto più si scioglie la tensione psicofisica, si attiva una auto regolarizzazione delle funzioni corporee e si ha la sensazione di benessere. Il buon umore rafforza l'organismo aumentando le difese immunitarie. Al contrario invece stati depressivi favoriscono l'insorgere delle malattie e il loro aggravamento. Da qui nasce la Terapia della risata, una disciplina paramedica nata negli Stati Uniti negli anni '70 e ora diffusa in molti istituti sanitari di tutto il mondo. La risata è un evento sonoro vocale, infatti può essere descritta attraverso i parametri musicali. Ecco che si apre una lettura finalizzata del suo senso comunicativo e relazionale. Come succede a un brano musicale, anche la risata esprime emozioni, stati d'animo, pensieri e suscita le reazioni più diverse: conferma, rinforzo, disconferma, rifiuto, e così via. Nella relazione con la signora Piera ho osservato che le nostre risate erano tante, diverse, funzionali al momento presente. In alcuni attimi il suo riso trasmetteva senso di dispersione, di inadeguatezza, un esorcismo verso il suo stato. In altri casi era una genuina manifestazione di piacere rispetto a quello che c'era. C'è una forte simbiosi emotiva quando due risate avvengono a specchio, con uguali altezza durata, intensità, ritmo. Quando si ride all'unisono ci si unisce e si accorda la sintonia. La risata è di per sé energia, suono, vibrazione, relazione. Nell'unisono io e Piera eravamo in contatto, ci guardavamo negli occhi per confermarci reciprocamente, esprimevamo emozioni genuine, istintive, primordiali. La risata guadagna carattere strategico quando il verbale è in parte o completamente compromesso. La paziente rideva quando non sapeva cosa dire, quando la parola veniva meno, e lì trovava rifugio. La risata si introduceva quando la sollecitazione emotiva raggiungeva un livello eccessivo, troppo forte da sostenere. Piera liberava le proprie emozioni in questo modo, spesso anche per smettere di suonare, anche solo per qualche istante, per un attimo di tregua, o forse proprio per scappare dalle emozioni che, forse, aveva timore a contattare.Il respiroLa signora Piera, osservata nel suo ambiente di vita quotidiana, aveva un respiro regolare e non molto ampio, intervallato qui e là da profondi sospiri. Nei nostri incontri, nei momenti emotivamente più forti, si interrompeva ostentando un fiatone decisamente marcato e sonoro. Lamentava qualche mancamento di fiato e capogiri. Dopo aver verificato con la signora e con il personale medico di riferimento che queste dichiarazioni erano eccessive rispetto al normale, abbiamo progressivamente integrato l'attività musicale con alcuni esercizi di respirazione aiutati dal movimento su e giù delle braccia. Questo permetteva di dedicare la giusta attenzione all'ascolto del respiro in modo che diventasse progressivamente più profondo e regolare. Mi sincronizzavo con il suo movimento respiratorio per rispecchiare anche questo aspetto. Nel canto prendevo fiato insieme a lei, quando suonavamo i flauti aspettavo i suoi tempi sincronizzandomi con i suoi inspiri e espiri. A volte, dopo aver suonato o cantato senza un eccessivo dispendio di energie fisiche, Piera mostrava segni di fatica respiratoria. Ho dedicato attenzione a queste manifestazioni e le ho spiegate come una fuga dalla situazione presente, dei tentativi strategici di portare attenzione sulla presunta stanchezza piuttosto che sul suo vissuto emotivo. La rassicuravo aspettando che prendesse fiato per poi riaccompagnarla in un respiro tranquillo e regolare. Respiravo con lei, chiedendole di raccontarmi come stava, cosa provava. La verbalizzazione diventava così un canale di espressione facilitante per lei. Tornata alla tranquillità Piera esprimeva il suo vissuto rispetto all'esperienza appena conclusa, portando ricordi del passato, immagini metaforiche o altre associazioni libere e improvvisate.

Il grido della presenzaUn'ultima, ma non meno importante, manifestazione vocale dell'emotività della signora era il grido nervoso. Spesso ci permettevamo di suonare con decisione, di accendere toni forti e manifestare grande energia. Lei pareva divertirsi e stare bene. Poi, improvvisamente, senza preavviso, interrompeva il suonare per cambiare espressione. Cominciava a lamentarsi del volume alto, mi sgridava per qualcosa che avevo fatto o stavo facendo, diceva che dovevamo smettere e che doveva andare via. In alcuni momenti faceva anche il gesto di alzarsi, ma poi subito si riadagiava sulla sedia. In alcune occasioni restavo in ascolto mantenendo la calma, ma a volte mi permettevo di stare nel suo registro, di risponderle, di alzare la voce insieme a lei. Ecco che la mia decisa partecipazione rinforzava il suo stato di tensione. Iniziavamo così una serie di battute verbali in forma di botta e risposta con o senza senso verbale, nelle forme già descritte. Lo sfogo vocale della signora assumeva una forma significativa perché permetteva un'espressione decisa del suo stato d'animo e confermava che la nostra relazione era solida e si basava su un buon grado di fiducia reciproca. Il tutto finiva nella conclusione della sgridata, in un respiro e poi in una risata comune. Successivamente si concedeva un silenzio che io rispettavo. Dopodiché ricominciavamo a suonare come se nulla fosse successo.


1aralonlus.blogspot.it

2 Krishnamurti J., (1978), Verità e realtà, Casa Editrice Astrolabio-Ubaldini Editore, Roma

3 https://www.youtube.com/watch?v=lDUx0FgcHp4

4 https://www.youtube.com/watch?v=nEPSQ6uKVY8

5 Postacchini P.L., Ricciotti A., Borghesi M. (2014), Musicoterapia, Carocci, Roma (pag 106-107)

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Esperienze didattiche


L'universo non è niente di più niente e di meno che una serie infinita di vibrazioni.
J. Goldman, Il potere di guarigione dei suoni

Durante la formazione triennale a Lecco la mia classe ha partecipato a alcuni laboratori e lezioni interattive su come avviene una seduta di musicoterapia, oltre a momenti dedicati all'acustica, alla composizione e all'improvvisazione. Molte volte ci è stato chiesto di usare il nostro strumento, quello che sentiamo più vicino. Abbiamo fatto improvvisazioni guidate, in coppia, in piccoli gruppi o nel grande gruppo. E' stato molto interessante giocare a esplorare il suono da punti di vista diversi, utilizzando i nostri strumenti in modi inconsueti e altri oggetti di uso comune sfruttandone il loro carattere sonoro, come scope, macchine da scrivere, utensili da cucina, insieme a Daniele Vineis.Nei tre anni sono stati proposti alcuni seminari specifici sull'esplorazione della nostra vocalità. Io ne ho seguiti uno con Marco Belcastro, e uno dall'area di drammaterapia sull'uso della risata condotto da Bruno Nataloni.E' stato interessante l'andamento del modulo di Musicoterapia didattica condotto da Marzia Mancini, musicoterapista e formatrice esperta. Quando abbiamo iniziato il gruppo era composto da dieci-dodici persone, che si conoscevano da un anno, seppur in modo superficiale. Le età erano comprese tra i 25 e i 40 anni, suonatori di vari strumenti (chitarra, percussioni, contrabbasso, flauto traverso, clarinetto, basso elettrico, pianoforte,...), due cantanti, alcune maestre di scuola primaria, qualche insegnante di strumento, altri provenienti da diversi ambiti professionali. Gli incontri si svolgevano circa ogni due settimane e duravano mezza giornata l'uno. Il percorso si è svolto in due fasi: nel primo anno l'insegnante ha assunto il ruolo di conduttrice e moderatrice, nel secondo anno questo ruolo è stato affidato, a turno, a coppie di allievi. Ogni incontro aveva sempre la stessa struttura: l'introduzione verbale al lavoro con eventuali commenti sull'incontro precedente, un'improvvisazione di gruppo, la verbalizzazione e la restituzione da parte del/i conduttore/i. Lo schema ripetitivo serviva a mettere in moto una serie di dinamiche personali e gruppali. Veniva lasciato spazio ai comportamenti e alle emozioni dei singoli, in modo che fosse facilmente osservabile l'andamento delle dinamiche all'interno di una cornice riconoscibile. Il lavoro è stato impostato da subito sotto una lente fenomenologica. Questa prevede l'osservare e il prendere nota di fenomeni e di comportamenti così come avvengono. Un evento assume significato per quello che è nel qui e ora, non subisce indagini causali o finali o approfondimenti rispetto ad altri significati. In quest'ottica ogni fatto assume senso in relazione alla situazione presente. Il punto di vista fenomenologico prescinde da tutto quello che è successo prima, non parte dalla storie personali dei partecipanti, né dalle loro competenze specifiche. Un evento è importante già solo perché c'è, nel suo manifestarsi si mescola al contesto, lo condiziona, lo modifica e diventa parte di esso. In qualche modo anche ciò che non avviene ha lo stesso senso, ma il non succedere necessita di un'indagine di altro tipo, una meta-indagine (l'indagine dell'indagine) che non fa parte della metodologia fenomenologica. Grazie a questo modello direzionale gli incontri sono stati molto sentiti e ricchi di spunti di riflessione.Il setting veniva disposto sempre nello stesso modo: un cerchio di strumenti (xilofono, metallofono, shaker, tamburi, tom, woodblock, campanelli, triangoli) intorno ai quali prendevano posto i partecipanti seduti sui cuscini. Il/i conduttore/i verbalizzava/no una suggestione o una consegna specifica, dopodiché prendeva inizio l'improvvisazione. Abbiamo suonato tanto, piano, forte, molto forte, ci sono state persone protagoniste e altre in ombra, ciascuno ha vissuto in modi diversi gioia, noia, eccitazione e fastidio. L'improvvisazione assumeva forme differenti e irripetibili, era carica di senso e portatrice di emozioni forti e contrastanti. Durava 15-20 minuti, duranti i quali ciascuno ha contattato le proprie emozioni, ha sperimentato in modo diversi l'ascolto interiore, il dialogo sonoro, la relazione speciale, il sentirsi parte e il sentirsi escluso.Gli incontri hanno confermato l'importanza e la delicatezza dell'uso della voce. Dopo le prime esperienze, io per prima, insieme ad altre persone, abbiamo sentito la necessità di introdurre il suono della voce, in primo luogo per aggiungere a un paesaggio sonoro, quasi esclusivamente ritmico, un elemento melodico chiaro e riconoscibile. L'aggiunta dell'improvvisazione vocale accanto a quella strumentale ha generato curiosità ma soprattutto disagio, rifiuto e chiusura nel gruppo. È apparsa chiaramente una dinamica di difesa verso uno strumento musicale che è stato poco esplorato durante gli anni di formazione. Alla luce delle numerose riflessioni teoriche che ho precedentemente descritto, non è difficile comprendere il perché di queste difficoltà. Come abbiamo detto, la voce svela e rivela. Se in un gruppo che improvvisa con le percussioni si introduce una voce, quella voce si impone subito come unica, riconoscibile e caratterizzata, molto più di una serie di suoni con un tamburo o uno xilofono. Inoltre, la voce apre in modo immediato al vissuto interno della persona, alle sue emozioni, al suo respiro, alle sue tensioni. Si tratta di un processo di svelamento che è più diretto e immediato di quello strumentale, e per questo può essere vissuto come eccessivo, “impudico”, invasivo, da persone che non hanno altrettanta familiarità con lo strumento vocale. Il gruppo ha saputo solo raramente accogliere questa “chiarezza” e incontrarsi nella coralità. Le difficoltà emerse sono state verbalizzate incontro dopo incontro e hanno confermato l'ambivalenza dello strumento vocale in musicoterapia. Da un lato la sua immediatezza, il suo essere sempre a disposizione, il suo portato di semplicità e di carico emozionale; dall'altro la sua fragilità, la sua complessità soprattutto sul piano della relazione e del vissuto interno. Sperimentare in modo diretto questa duplicità è stata un'occasione preziosissima per confermare una volta di più che la voce rappresenta uno strumento fondamentale per l'attività in musicoterapia e che richiede una preparazione solida e adeguata. Proprio per questo ha bisogno di spazio, va aiutata, accompagnata con cura e attenzione. La vocalità è un canale importante, in musicoterapia può e deve essere accostata alle altre strategie di lavoro, trovando con esse un'armonizzazione che non vieti nulla, anzi possa aprire possibili finestre di dialogo e esplorazione. Al contrario il rischio è che il professionista si trovi a fare i conti con un tabù, un limite che difficilmente saprà superare da solo durante il suo lavoro, perché non ne ha potuto comprendere appieno la portata e il senso.

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Il canto della voce


Sto partecipando a un corso biennale organizzato dal centro tridentino di Musicoterapia, pensato da Antonella Grusovin e Elena Sartori. Il percorso propone l'integrazione e l'approfondimento delle competenze musicoterapiche in riferimento alla comunicazione sonoro/vocale. Il focus è relativo alla comunicazione rispetto a varie discipline e ambiti che si occupano di vocalità. L'espressione e la sperimentazione di questi aspetti consentono di ampliare le proprie capacità di ascolto, relazionali e espressive. Le attività proposte sono volte ad acquisire consapevolezza vocale dove suono, canto e movimento favoriscono una conoscenza di sé e delle proprie capacità espressive e comunicative. Il gruppo è formato da dieci persone, adulte, musicoterapisti diplomandi e altri già attivi sul campo.Di seguito propongo alcune esperienze fatte con Antonella Grusovin, musicista, musicoterapista, formatrice e supervisore che si occupa di vocalità da più di vent'anni. Descrivo le attività e una loro possibile trasposizione in ambito professionale.
  1. In cerchio. Il conduttore, senza dire nulla, comincia a respirare in modo sonoro. Tutti lo copiano. Il conduttore emette dei suoni con la voce. Inizia una melodia bordone di coro, dolce, morbida. Il conduttore entra nel cerchio e, facendo tutto il giro, improvvisa con ogni persona dedicando almeno un minuto a ciascun saluto. Questa esperienza, svolta per prima, può essere utile a sciogliere le tensioni, le timidezze. Tutti ricoprono lo stesso ruolo e non ci sono prestazione e giudizio. Ci si saluta cantando, in modo semplice e giocoso.
  2. Il conduttore chiede di presentarsi a turno cantando il proprio nome. Si condivide una riflessione sul senso del nome proprio, cosa porta con sé quando viene verbalizzato. Il conduttore chiede di camminare nella stanza in ordine sparso, cantando il nome della persona che si incontra. Poi ognuno dedica un po' di tempo al canto del proprio nome, nella ricerca della propria sonorità e nella cura dei parametri musicali. Poi, tornati in cerchio, ognuno ricanta il proprio nome. Fatta questa esperienza si raccontano le sensazioni, la particolarità di riconoscere il nome come custode della più intima e profonda natura. Il nome proprio è più difficile di quello degli altri, cantarsi fa incontrare se stessi. Questo esercizio, trasposto in ambito professionale, richiama la cura del chiamare per nome un paziente, ciò che questa semplice azione può smuovere nell'intimo della persona e il non pretendere per forza una risposta, soprattutto da chi fatica ad usare la comunicazione verbale.
  3. A coppie: uno si muove lentamente, l'altro canta il movimento in atto. Poi si invertono i ruoli. Uno canta, l'altro segue il canto con il movimento del corpo. Svaniscono i ruoli, non c'è più chi conduce e chi viene condotto. Nasce un dialogo, si sviluppa l'ascolto reciproco e spariscono i confini del suono e del movimento. Qui è evidente una similitudine di ciò che può succedere in un percorso di musicoterapia con una persona con il canale vocale compromesso ma con buone capacità di movimento oppure, al contrario, che fa buon uso della voce, ma non è abile fisicamente. Il rispecchiamento può avvenire in modi differenti, usando varie modalità espressive e mantenendo sacra l'importanza dell'ascolto e della disponibilità a mettersi in gioco.
  4. In cerchio seduti, occhi chiusi. Una persona sceglie un'altra e la chiama con il canto, senza parole. Quando uno si sente chiamato risponde cantando. Se la persona che risponde non corrisponde a quella dell'intenzione iniziale, chi chiama deve insistere e chiamare ancora la stessa persona finché questa non risponde. E' un'esperienza complessa, lunga e impegnativa, fattibile con un gruppo specifico, capace di stare a lungo fermo, in silenzio e in ascolto. Occorre tranquillità e pazienza. Il suono ha un suo comparto fisico, materiale. Quando una persona sta cantando per te, il suono della voce ti arriva addosso, ti avvolge, percepisci che c'è un'intenzione precisa nei tuoi riguardi. Il nostro corpo sente, a volte molto meglio delle nostre orecchio e del nostro cervello. Se il canto è rivolto a te in modo specifico, prima o poi, te ne accorgi, lo senti.
  5. A coppie, in piedi, uno di fronte all'altro. Uno canta in direzione dell'altro che cammina a occhi chiusi all'indietro allontanandosi, tenendo sempre agganciata la voce del compagno. E' un'esperienza complessa, le voci si mescolano e diventa difficile mantenere il contatto con la propria voce guida. E' automatico aumentare l'intensità quando anche gli altri aumentano lo sforzo, ma il volume alto non sempre corrisponde alla sensazione di maggior presenza. Entrambi i partecipanti hanno un ruolo attivo, chi ascolta è protagonista quanto chi vocalizza. Si perdono i ruoli di guida e guidato, si sviluppa subito un forte contatto sonoro da parte di entrambi. La voce guida diventa una base sicura su cui si fa affidamento per potersi allontanare senza timore di essere “abbandonati”. Entrambi vivono la sensazione della dimensione spaziale della voce. L'uso del canale vocale in ambito terapeutico è centrale nella misura in cui questo diventa un gancio relazionale cui affidarsi, una presenza cui potersi appoggiare nel momento in cui altri canali comunicativi sono compromessi (deficit di altri sensi, incapacità motoria che non permette l'uso di strumenti, predilezione per il canale vocale).
  6. A coppie. Ci si muove nello spazio in silenzio. Poi, al segnale (pacca sulla spalla), ci si stacca e si cammina nello spazio. Bisogna ritrovarsi. Si attivano i sensi meno protagonisti della vista. Quando ci si lascia si può provare la sensazione di sentirsi soli, oppure, al contrario, di essere liberi. Ritrovarsi è sintesi di una serie di emozioni (ritrovare la parte mancante, tornare a casa, non essere più soli...). La relazione con l'altro dà e toglie qualcosa. Nell'incontro musicoterapico bisogna costruire un rapporto di fiducia reciproca, non è scontato stare con un'altra persona, bisogna essere disposti a metter da parte la propria individualità e aprirsi all'altro. La musicoterapia non si fa a occhi chiusi ma le dinamiche che si attivano sono molto simili a quelle vissute in questa attività. Bisogna essere disposti ad attivare una grande sensibilità sottile che ci predispone inevitabilmente all'incontro.
  7. Altre coppie. Si rifà lo stesso esercizio. Nella relazione vengono coinvolti i sensi che vengono messi alla prova perché bisogna cambiare ciò a cui siamo abituati. Nella relazione musicoterapica è essenziale dare importanza al silenzio, che è la dimensione fondamentale per attivare il contatto sottile. Questa relazione fine si attiva in ogni rapporto intimo (madre-figlio, amici, relazione di coppia, ..) ma spesso non ce ne accorgiamo e non gli dedichiamo l'attenzione necessaria. Ognuno di noi ha un grande potenziale di cui usiamo solo una parte nella nostra vita quotidiana. In un incontro sonoro-musicale di tipo terapico queste sensazioni sono segnale di uno stato d'animo. Se ci fosse il tentativo di un paziente di interrompere o sabotare l'attività il terapista dovrebbe essere in grado di riconoscere il momento e decidere se sia il caso di fermare o continuare il momento. Inoltre stare con la sonorità e la fisicità dell'altro permette di incontrare la propria sonorità e fisicità, quindi di stare con se stessi.
  8. Una persona sta in piedi a occhi chiusi. Altre 5-6 persone, una alla volta, gli si mettono davanti per qualche istante, in silenzio e senza muoversi. La persona deve riconoscere il suo compagno di prima, senza vista e senza contatto. La nostra presenza denota il nostro esserci, quando siamo in una stanza già stiamo facendo qualcosa, cioè ci siamo. Prima ancora del nostro agire o del suonare/cantare, il nostro esserci descrive la nostra persona. Questa esperienza, trasposta in un dimensione musicoterapica, mostra che non bisogna imporre la nostra volontà, non bisogna pretendere che l'altro produca un suono. Prima di tutto bisogna ascoltare quello che c'è con la sensibilità sottile, anche nel silenzio e nell'immobilità fisica.
  9. Ognuno scrive una brave poesia, o un racconto. A turno vengono letti ad alta voce. Poi i fogli vengono distribuiti in modo casuale ai partecipanti in modo che ciascuno riceva il manoscritto di un altro. Vengono sonorizzati uno alla volta e i partecipanti devono indovinarne l'autore. Leggere ad alta voce qualcosa di nostro ci intimorisce, ci mette a nudo. Di contro nell'interpretazione del brano di qualcun'altro abbiamo la responsabilità verso l'autore. Nell'interpretazione del messaggio bisogna lasciarsi trapassare dal contenuto dello scritto, bisogna farlo proprio. Quando si assiste all'interpretazione del proprio scritto si fa i conti con la personale aspettativa che, come spesso succede, può sporcare il vissuto emotivo e può non permettere una vera partecipazione alla scena rappresentata. L'ascolto fa sentire sensazioni nuove, non contemplate precedentemente. La nostra mente cerca di incasellare, di categorizzare. Più rimaniamo disposti all'ascolto incondizionato più accogliamo le sonorità diverse che danno qualcosa di nuovo. Le emozioni sono indicatore di qualcosa, ci portano da qualche parte. Il suono è un ottimo conduttore di emozioni. Nella terapia sonoro-musicale la paura di non essere in grado di stare in una relazione ci impedisce di sperimentare strade nuove, siamo più concentrati nei nostri timori che nel modo per affrontarli. Le relazioni difficili, in particolare quelle che nascono in una dimensione terapica, non devono spaventarci, non devono essere allontanate. Anzi, bisogna immergersi nella difficoltà per permetterci di trovare strade alternative.

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Lo strumentarioNel setting musicoterapico si deve pensare come organizzare lo strumentario, in funzione delle specificità del paziente e degli obiettivi individuati rispetto al progetto. Lo strumentario ha un fascino che genera sempre reazioni molto diverse. Gli individui possono mostrare curiosità più o meno evidenti verso i vari strumenti e preferenze specifiche in funzione di molte variabili. E' importante osservarle e descriverle con cura perché sono cariche di informazioni utili alla comprensione dei pazienti e alla definizione del percorso. La presenza della voce può essere inserita in modo pensato con altri strumenti, appositamente selezionati di volta in volta.


L'uso sensoriale dello strumentarioGli strumenti possono essere considerati sotto tre aspetti: visivo, tattile e acustico. L'unione delle tre categorie rende possibile un rapporto completo con l'oggetto. In alcuni casi viene compensata l'assenza di un senso (vista, tatto, udito) con gli altri, nei modi più diversi. Per esempio un paziente può cercare un rapporto molto fisico con uno strumento per compensare una personale difficoltà visiva, oppure può mostrare una diffidenza verso alcuni oggetti per il loro aspetto, per la forma o per qualche particolare sensazione fisica suscitata alla vista, al tatto o all'udito. Il terapista deve sperimentare il proprio rapporto visivo, tattile e acustico con gli strumenti per conoscersi e imparare a regolare le proprie sensibilità in modo che possano essere trattate con cura e che non creino delle derive di attenzione proprie o del paziente. Personalmente sto esplorando una personale fatica verso il suono di alcuni strumenti di metallo, per esempio il glokenspiele. Questo, se suonato in un ambiente chiuso e percosso per più di qualche minuto, mi da fastidio e disturba la mia attenzione verso gli altri suoni o verso le azioni compiute dai presenti.L'approccio con lo strumentario avviene in varie fasi. Prima di tutto un'oggetto attira l'attenzione per il suo aspetto, attira la vista. Le tante forme, i colori e le dimensioni accontentano le varie preferenze. Poi, una volta selezionato e preso in mano, lo strumento suscita varie sensazioni rispetto al caldo, al freddo, al duro, al morbido, all'elastico, al rigido, alla qualità della vibrazione che produce e così via. Il contatto con i materiali (legni, pelli, metalli, plastiche, …) permette l'organizzazione di un immaginario personale che fa collegare in modo istintivo un suono al materiale che lo genera. Per esempio si sviluppa velocemente la capacità di associare il suono di un metallo a vari oggetti di uso comune: pentole, posate, attrezzi vari. L'uso acustico degli strumenti deriva da vari fattori. Il timbro, più degli altri parametri musicali, rivela il senso proprio di un oggetto sonoro. Permette di riconoscere uno strumento a un primo ascolto e di distinguerlo tra altri in un insieme. La sensibilità e lo stato emotivo del suonatore possono essere denotati dalle qualità del suono che egli produce. Per esempio l'intensità (forte - piano), oppure l'agogica (lento -veloce) possono rivelare molto di ogni persona. Inoltre la funzione acustica degli strumenti cambia nel suonare da soli o in coppia o, ancora di più, in un gruppo, un'orchestra o un insieme di improvvisazione. E' importante ricordare che le capacità cognitive e psico-fisiche permettono un uso più o meno corretto dello strumento, che può essere suonato nel modo per cui è stato pensato oppure no. Nulla vieta che uno shaker venga usato per simulare un microfono o come battente per una percussione. Ovviamente sta al terapista saper gestire gli usi diversificati degli strumenti, in un contesto protetto e in azioni dotate di senso.


La voce e i parametri musicaliI parametri musicali che vengono usati per i suoni descrivono anche le caratteristiche della voce umana. L'altezza descrive se la voce è acuta o grave. Si misura in Hertz e conta il numero delle oscillazioni del corpo vibrante al secondo, detto frequenza. Più sono numerose più il suono è acuto. La durata descrive lunghezza nel tempo. L'agogica denota la lentezza o la velocità di un canto o di una espressione verbale. L'intensità indica il volume che può essere forte o piano. Il timbro è il colore del suono, la sua qualità percettiva, permette di distinguere una voce tra molte altre. Dipende dai suoni armonici che il suono porta con sé. L'insieme di questi parametri ci permette di riconoscere le voci dei nostri amici o quella di un cantante famoso tra mille altre. Inoltre ci sono tempo e ritmo che descrivono la vitalità di un canto. Lo spazio è fatto dai movimenti e dalle direzioni che il suono prende. Questi parametri sono riassunti nello studio della prosodia del linguaggio. Ma non è tutto. Il linguaggio parlato diventa musicale sulla base delle emozioni che vuole esprimere. E' fatto di due componenti: significante, la sua forma esteriore, i suoni che lo compongono, e significato, il contenuto a cui rinvia, il concetto che vuole esprimente. Per esempio: la parola ALBERO ha come significante le lettere A, L, B, E, R, O, e come significato il concetto di albero, la pianta composta da radici, fusto, rami foglie, e così via.
La parola cantata arricchisce il testo di una componente emotiva, che non rappresenta necessariamente un significato condivisibile. Il canto è una forma di comunicazione che veicola direttamente un sentimento andando oltre il dover elaborare un contenuto semantico e senza rispettare le regole della grammatica. Infatti i bambini in età preverbale e le persone affette da patologie o disfunzioni che compromettono l'uso del verbale riescono a usare la voce per esprimersi, per comunicare senza usare la connessione significante-significato. 

Voce sono. Per una consapevolezza vocale_4

Meditazione con i suoni

Da circa due anni partecipo agli incontri di Meditazione con i suoni patrocinati dal Comune di Lissone e condotti da Guglielmo Nigro, musicoterapeuta e ricercatore in ambito della meditazione Vipassanā e dinamica. Il conduttore guida il gruppo in una serie di esperienze sensoriali e meditative durante le quali si utilizzano i suoni per alimentare una dimensione amorevole di accoglienza e trasformazione. Si usa il canto come strumento per esplorare, sentire, far vibrare il corpo, unirsi agli altri, lasciar andare aspettative e giudizi, calmare il corpo e la mente, ascoltare il silenzio dopo la pratica meditativa, in generale prendersi cura di sé e delle relazioni con gli altri. Attraverso semplici mantra musicali o esperienze di improvvisazione canora di gruppo ho sperimentato l'effetto benefico che questa pratica ha su di me. Questa esperienza è centrale nel mio percorso di crescita personale e apre una finestra di osservazione sulla mia strada professionale.E' fondamentale che il terapista faccia un continuo lavoro di centratura personale per poter accogliere il carico transfteriale del paziente e saper comprendere e trasformare il proprio controtransfert. Bisogna maturare una consapevolezza rispetto le proprie emozioni nella relazione con il paziente, le proprie preoccupazioni circa il carico narrativo ed emotivo che questi portano, la paura di deluderlo, di essere banale e così via. L'uso della voce durante la pratica di meditazione, sia in solitudine che con un gruppo, rappresenta un tuffo nel mondo interiore. Il canto porta fuori quello che c'è dentro, senza una finalità se non quella di essere nel momento presente. Dopo aver cantato per quindici-venti minuti una melodia molto semplice, con o senza riferimento verbale comprensibile, si ci dedica alla pratica e all'ascolto del silenzio. E' una dimensione particolarmente significativa, che si può percepire in tutta la sua forza. Questo silenzio è robusto, corposo, consistente. A volte si sente la fragorosità del silenzio, come se fosse alimentato proprio dal contrasto con il suono del canto che si è appena concluso o come se rispecchiasse il rumore di fondo di tutto l'universo. Alcune culture indiane ritengono che il silenzio corrisponda al suono dell'Universo tutto, ne abbia la stessa qualità sonora.


Il Canto di AvalokitesvaraDa circa due anni frequento un “Sangha”, ovvero una comunità di pratica di meditazione secondo gli insegnamenti del maestro Thích Nhất Hạnh (Nguyễn Xuân Bảo, 11 ottobre 1926), monaco buddhista di origine vietnamita, poeta e costruttore di pace che, insieme al Dalai Lama, è una delle figure più rappresentative del Buddhismo nel mondo. Gli incontri si svolgono in un ambiente di cura e attenzione, sono strutturati per facilitare un'educazione reciproca, una maggiore consapevolezza personale e una progressiva comprensione verso se stessi e il mondo circostante. Il Sangha mette a disposizione una stanza, calorosa e accogliente. In un clima di grande raccoglimento e disponibilità all'ascolto reciproco i partecipanti seguono una scaletta fatta di letture di testi di Thích Nhất Hạnh, meditazioni silenziose sedute o in altre posizioni, meditazioni silenziose camminate, meditazioni cantate e momenti di condivisione verbale.Durante gli incontri il canto accompagna le pratiche meditazione. In particolare mi vorrei soffermare su un brano, per il suo ampio significato trasformativo. E' il Canto di Avalokitesvara. È un'invocazione a Avalokitesvara che, secondo la tradizione buddista, fu un risvegliato. Fece il voto di essere d’aiuto a tutti gli esseri viventi, assistere ed essere di conforto ai sofferenti, fino all’eliminazione del dolore e per tutti gli esseri senzienti e il raggiungimento del Nirvana.Il canto si sviluppa in tre strofe, con una melodia molto semplice che si ripete con solo qualche nota variata. Il testo è il nome di Avalokitha che viene ripetuto tre volte nelle tre strofe con l'invocazione “Namo-Avalokiteshvara – ya”. Ha una velocità Largo, di circa 48 BPM (beats per minute) e si muove su una ritmica doppia, 6/4 per l'accompagnamento strumentale e 2/4 per il canto. Questa sovrapposizione genera un doppio binario ritmico. Per quanto la melodia sia molto semplice si deve modulare sull'estrema lentezza del brano e sull'apparente incongruenza del tappeto musicale. Questi fattori generano una difficoltà che mette alla prova il cantante. A un primo approccio questo brano sembra molto semplice poi, subito dopo, molto difficile, quasi irraggiungibile. Poi si comprende che per poterlo cantare bisogna agire un atteggiamento meditativo vero e proprio. Chi canta deve porre la propria presenza mentale nel qui e ora, nel canto, non può permettersi di “fare“ altro. Se, mentre si canta, la mente divaga e si dedica ad altri mondi, il canto diventa fastidioso e incomprensibile. Perde così ogni suo senso meditativo e trasformativo.Ecco che la meditazione può segnare una strada per maturare la presenza mentale, utile a vivere pienamente le azioni che compiamo. Questo è fondamentale se vogliamo essere presenti a noi stessi nelle azioni della nostra quotidianità. In un senso terapeutico questo atteggiamento può permettere di cogliere pienamente il presente fenomenico che si presenta nel setting con i pazienti. In musicoterapia è centrale la dimensione spazio-temporale. Il quando, il quanto dura, il dove avviene è la maggior parte di ciò che viviamo. Una volta avvenuto un oggetto esperienziale, si dilegua, non è più né nel tempo né nello spazio. Se il terapista non coglie l'essenza di questo evento, perde l'oggetto stesso del suo intervento. Non ha la possibilità di poterlo afferrare, accogliere e accudire. Ecco che l'attenzione al qui e ora diventa un postulato che sta alla base di qualunque relazione.


La dimensione di gruppoÈ molto interessante il potere del gruppo, in quanto dimensione di condivisione e di rinforzo. In un gruppo non siamo soli, possiamo sentire la protezione e l'accudimento da e verso gli altri, possiamo riconoscere, lasciar andare l'ansia di prestazione, attivare un ascolto di noi stessi e degli altri in un' ottica di condivisione e leggerezza. Nel gruppo di canto ciascuno è in relazione contemporaneamente con se stesso e con gli altri. Come spiega Bernardino Streito (2008), docente di Acustica Musicale e Prassi Vocale e Corale presso il Corso di Musicoterapia di Assisi, il canto di gruppo, o di coro, facilita relazioni di equivalenza, che siano al contempo riflessive (A con A), simmetriche (A con B e, contemporaneamente, B con A) e transitive (A con B, B con C, quindi A con C). Questo sistema si autoalimenta generando così una catena di buone pratiche, espressive, creative e terapiche. L'individuo è posto operativamente in una dimensione creativa, sia a livello socio-comunitario che identitario. Ciascuno diventa strumento di facilitazione per gli altri, in modo circolare, una sorta di uno per tutti e tutti per uno. Il gruppo diventa un campo controtransferiale: in un gioco di risonanze e rispecchiamenti si dà forma a una grande complessità di espressioni sonoro-musicali. Su ciascun membro, non solo sul terapista, potranno confluire, da parte di più soggetti, attribuzioni simboliche diverse. Nel gruppo si creano risonanza e rispecchiamento: nel gruppo il suono del singolo risuona in tutti, suscitando cinestesie e condivisioni di elementi emozionali. Avviene il mirroring, o rispecchiamento, che significa: negli altri vedo me stesso, gli altri vedono se stessi in me.


Il canto armonicoIl Canto Armonico può essere una pratica trasformativa di tipo terapeutico, interessante per la sua capacità di attingere al mondo interiore dell'individuo. È una particolare tecnica canora, non di immediata esecuzione, con cui è possibile emettere contemporaneamente due suoni. Solitamente si canta una nota continua che corrisponde alla normale voce, che tutti possono sentire e, contemporaneamente, si genera consapevolmente un suono più alto con il quale si può cantare intenzionalmente scale armoniche. È un’affascinante tecnica, antichissima e molto efficace per condurre facilmente a stati meditativi, per stimolare il cervello e per trovare salute e equilibrio. Anche in questo contesto mi sono sperimentata, mi sono abbandonata. Per quanto l'esperienza sia durata solo qualche incontro ho trovato un benessere e una grande gioia. Ero felice di poter condividere quel momento con altre persone, non cantanti, non esperti, curiosi e disposti al gioco.


Le Circle songsHo partecipato a gruppi di Circle Songs, tra adulti, non specialisti del canto e non professionisti. Le Circle Songs sono una forma di improvvisazione corale ideate da Bobby Mc Ferrin: in una dinamica di libera improvvisazione, un direttore, attraverso particolari moduli ritmico vocali, crea delle parti, assegnate gradualmente ai cantanti disposti a cerchio, ripetute in una sorta di spirale continua. Da questa mescolanza nasce lo sviluppo armonico, ritmico e melodico che crea un vero e proprio canto d'insieme. Ogni esperienza è unica, irripetibile, senza partitura, affidata in misure diverse al direttore e all'improvvisazione dei cantanti. Il controllo vocale viene ad unirsi al controllo respiratorio, necessario per ripetere una parte tante volte una dopo l'altra (loop). Lo stimolo è inoltre mnemonico e di ear-training, poiché il cantante deve ricevere la parte del direttore rapidamente e memorizzarla. Per questo motivo l’esperienza delle Circle Songs non è solo artistica, bensì educativa perché fa lavorare sull’orecchio, sulla memoria, sul ritmo, sul corpo, sul respiro e sulla voce.Trasportando questa esperienza in una misura terapeutica ho sperimentato l'uso della ricorsività del suonare e del cantare in loop con un paziente o con un gruppo per creare la dimensione dello stare, per il consolidamento di una relazione, la bellezza della ripetizione che abbatte la prestazione, il non dover fare qualcosa di speciale se non quello che si sta facendo. Lo stare lì può essere bello e basta.Può essere il paziente a proporre un pattern (cellula melodico-ritmica), che può essere improvvisato al momento oppure può essere il suono che lo caratterizza, evidente segno di una spirale interiore nella quale si è incastrato da tempo. La ripetizione, il rispecchiamento e le sintonizzazioni inesatte del terapista possono suscitare emozioni diverse, tra cui sorpresa, divertimento, rabbia. C'è sempre una risposta del paziente, che denota una connessione con la persona di fronte a lui, proprio lì, in quella melodia, in quella sonorità.Il terapista può proporre un pattern ripetitivo, che può aprire spazi di variazione e improvvisazione infiniti. Il paziente può stare in questa modalità e ci si può appoggiare per riposare, divertirsi, gioire, oppure può non accogliere e fuggire dalla proposta, per varie ragioni: l'ansia di cercare altro, il timore di fermarsi, la paura della relazione, e così via. In ogni caso spetta al conduttore leggere i segnali di risposta per modulare l'intervento in modo consapevole, misurato e non violento.Questa dinamica ricorsiva della circolarità inizia con un rispecchiamento ed è metafora di un processo graduale e continuo di rimodellamento nella relazione terapista-paziente. Di solito in musicoterapia si parla di rispecchiamento come di quella tecnica che permette al terapista di rimandare al paziente la sua immagine, rielaborata, amplificata. Ma prima di tutto è il paziente a offrirci un'immagine inedita di noi, dai primi attimi del primo incontro. Durante ogni momento della relazione, in particolare durante la seduta di musicoterapia, il terapista esplora se stesso rispecchiandosi nel paziente che ha di fronte. “La relazione terapeutica che costruiamo è un susseguirsi di continue scintille di consapevolezza (insight, vedere dentro, attraverso) sul nostro mondo psichico e fisico”, come dice Nigro. La crescita in un processo di cura non può essere mai considerata unilaterale, è un compito che non spetta solo al paziente. Sarebbe un'illusione infantile e pericolosa. La crescita e la trasformazione ci coinvolgono direttamente, al punto che se vogliamo essere specchio per il paziente, dobbiamo per prima cosa assorbire il riflesso della continua capacità di mettersi in discussione, di rielaborare e di cambiare.Tornando alle Circle Songs, tra le varie esperienze fatte mi sembra interessante citare un percorso di esplorazione fatto con Guillermo Rosenthuler, cantante e voice coach inglese. Riporto alcune esperienze fatte con un gruppo di adulti, musicoterapisti e/o cantanti.
  • In cerchio, in piedi. Risveglio del corpo con esercizi di massaggio corporeo, soprattutto nella zona della colonna vertebrale dove si radica il canto. Sonorizzazioni di vocali o sillabe che smuovono l'energia del corpo.
  • In cerchio, in piedi. Il conduttore assegna dei pattern sonoro-ritmici a gruppi di 3-4 persone. Si rompe il cerchio e si cammina da soli nello spazio cantando la propria cellula, incontrando e ascoltando gli altri. Si ritorna in cerchio non per forza al proprio posto riformando il coro che canta.
  • In cerchio, in piedi. Prove di conduzione di Circle Songs. Una persona assegna al cerchio un pattern sonoro-ritmico. Su questa base fa un'improvvisazione vocale, portando il gruppo alla conclusione usando la gestualità.
  • Gestualità che può usare un leader per condurre un gruppo vocale: Mani aperte verso il basso all'altezza del petto: il coro esegue un bordone all'unisono; Mani aperte con i palmi verso il petto: il coro esegue un bordone armonizzando le note; Una mano posizionata sul segnale di OK: il coro tiene la nota di bordone prolungata nel tempo.
  • In cerchio. Prove di improvvisazione pattern: il gruppo tiene un bordone fisso. I partecipanti, uno alla volta, improvvisano dei pattern vocali cercando di cambiare stile ogni volta rispetto alla persona precedente. Variante: cambio più veloce da una persona all'altra, ogni persona canta per una manciata di secondi.
  • In cerchio. Il coro tiene un bordone. Il conduttore annuncia una situazione musicale e un volontario la sonorizza (Mozart, heavy metal, un funerale spagnolo, il mercato di Napoli, un matrimonio balcanico, e così via).
  • A coppie (persone A e B): A vocalizza un pattern, B risponde copiandolo all'unisono. Dopo qualche attimo B si interrompe e introduce un altro pattern sovrapposto al primo. A ferma il pattern iniziale e copia all'unisono il pattern di B. Si continua con questo botta e risposta.
  • In cerchio. Una persona assegna un pattern alla sua metà cerchio. L'altra metà cerchio sta in silenzio. Una persona della seconda metà cerchio si inserisce assegnando un nuovo pattern alla sua metà cerchio. Si torna alla prima metà cerchio. Una persona si inserisce cambiando pattern. Si va avanti così. Si può fare anche con il cerchio diviso in tre-quattro parti.